Le parole di speranza vengono dalle donne cristiane

C’è un filo (rosso) che lega due avvenimenti accaduti in queste settimane: l’estradizione dalla Francia di un gruppo di persone condannate in Italia per azioni terroristiche e le parole e la polemica suscitata da Fedez al concerto del Primo maggio.

Per scoprire il legame occorre però fare un salto indietro nella storia del nostro paese. Il decennio che va dall’inizio della contestazione nelle università nel 1968 al sequestro e l’uccisione dell’on Moro nel 1978, segna uno spartiacque drammatico nella storia d’Italia.

Un movimento che nasce nelle università con l’intento originario di svecchiare la struttura degli studi cosa di cui era realmente sentita la necessità, in tempi rapidissimi diventa contestazione all’insieme della società definita borghese e alla legittimità dello stato democratico.

“Lo stato borghese si abbatte non si cambia” è solo uno degli slogan che fanno presa tra i giovani di quegli anni diffondendo un veleno che intossicherà presto un’intera generazione.

La contestazione diventata voglia di rivoluzione trova nell’analisi marxista i suoi strumenti teorici, nelle figure di Fidel Castro, Che Guevara e Mao Tse Tung i nuovi idoli e nel Vietnam di Ho Chi Minh la propria terra promessa.

Questo impeto rivoluzionario, per quanto velleitario si possa oggi giudicarlo vista la divisione del mondo in sfere di influenza (non dimentichiamo che in quello stesso 1968 i carri armati sovietici soffocano nel sangue la cosiddetta primavera di Praga) portò molti, giovani e meno giovani, ad imbracciare le armi e a compere uccisioni e attentati in suo nome.

Il rifiuto dello Stato e il culto della rivoluzione potevano appoggiarsi anche sulla teoria, ben costruita e diffusa dal Partito Comunista Italiano della cosiddetta resistenza tradita, vale a dire il tentativo, in gran parte riuscito, di attribuire unicamente al movimento della resistenza e soprattutto a quella comunista la liberazione dal nazifascismo e ai partiti di governo l’accusa di insabbiamento di ogni cambiamento radicale. Solo dopo molti anni si è cominciato a ricostruire quei lontani fatti con rigore storico e realismo.

Ma il clima di quegli anni è forse meglio descritto dall’appello del 1971 con cui si attribuiva al commissario Calabresi la responsabilità della morte, avvenuta in questura, dell’anarchico Giuseppe Pinelli legata alle indagini sulla strage di Piazza Fontana a Milano. Appello che contribuì ad armare la mano di quelli che uccisero vigliaccamente il commissario davanti a casa sua.

Se si vanno a leggere i nomi dei firmatari (alcuni dei quali, pochi in verità, lo hanno poi rinnegato), vi si trova descritto con nomi e cognomi un panorama del mondo culturale dell’epoca, con persone che per il loro ruolo avevano la possibilità di formare l’opinione pubblica e indirizzarne le conoscenze: giornalisti, registi, scrittori, docenti universitari, uomini di cultura e politici variamente impegnati.

Insomma tutto l’establishment si schierava contro uomini dello Stato fornendo spazio giustificazionista all’esplosione rivoluzionaria e omicida che si sarebbe poi sviluppata negli anni successivi.

Qui va trovato il collegamento con i recenti fatti del primo maggio. Non siamo più fortunatamente alla presenza di bande armate, ma lo schieramento culturale che appoggia le esternazioni del rapper è lo stesso di allora: giornalisti di area, uomini e donne di spettacolo cui si aggiungono oggi i protagonisti dei talk e dei social e gli/le influencer.

Se in quegli anni si trattava di sostenere un cambiamento rivoluzionario delle strutture dello stato, quello che è in gioco oggi è il tentativo di cambiare in profondità la cultura del nostro popolo: questo è l’obbiettivo non solo del progetto di legge sull’omotransfobia ma anche di tutte le pressioni che quel mondo esercita per passare dalle unioni civili al matrimonio dello stesso sesso, alle adozioni omosex, alla maternità surrogata fino ad arrivare alla self-id, cioè alla possibilità di scegliere il genere cui appartenere indipendentemente dal sesso di nascita.

Le “armate” impegnate in questa battaglia di destabilizzazione dell’umano sono forti e sembrano impossibili da sconfiggere. Eppure la storia recente ci insegna che il combattimento per la verità non può essere abbandonato.

Ce lo insegna il ragazzo che ferma i carri armati ponendosi disarmato davanti ad essi sulla piazza Tienanmen in Cina, così come la suora che si mette in ginocchio davanti ai soldati in Myanmar perché non sparino sulla folla.

Ce lo ricorda il percorso di Vaclav Havel, un combattente per la verità, passato dal carcere riservato ai dissidenti alla presidenza della repubblica liberata dal comunismo. E ce lo ha ricordato in questi giorni la signora Gemma, la moglie del Commissario Calabresi testimoniando con la sua storia personale che il perdono è più forte dell’odio, e solo a partire dal perdono è possibile ricostruire la propria vita e, di conseguenza una società liberata dall’odio. Parole che riecheggiano quelle della signora Margherita dopo che il marito carabiniere fu ucciso a Nassirya.

Forse non è un caso che le parole più vere di speranza vengano dalle donne e in particolare da donne cresciute nella fede cristiana. Quella fede che la società contemporanea pensa di poter lasciare ai margini dai processi sociali e politici consegnandosi così a un drammatico declino.

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